Provenienti dalla fascinosa Comacchio (Ferrara) i Deadly Kiss si propongono all’attenzione generale con questo EP di debutto, forti di un’esperienza ormai consolidata che li porta ora a tentare il salto in avanti. La band sembra voler evitare di categorizzare la propria proposta, indicando come generi di riferimento hard rock, southern, alternative metal. In realtà, sin dal primo ascolto, è impossibile non rilevare il territorio su cui queste canzoni vanno inevitabilmente a parare: il thrash evoluto e dinamico dei Pantera di Cowboys from Hell e le atmosfere doom/sludge/southern dei Down di Phil Anselmo e Pepper Keenan. Oscillando ora verso un estremo, ora verso l’altro, la band riesce comunque a mostrare interessanti margini di miglioramento ed aperture che sembrano dirigersi anche verso gli orizzonti post grunge di band quali Candlebox e Staind. Si tratta quindi di un bacino di ispirazione potenzialmente molto ampio e, in questo, il gruppo sembra quindi aver ragione nel non volersi rinchiudere all’interno di definizioni troppo stringenti. Per converso, i Deadly Kiss sembrano invece difettare -date per scontate alcune ingenuità abbastanza ovvie in un debutto- proprio in ciò che sembrerebbe conseguenza naturale di quanto appena detto, ovverosia nell’originalità. Alone in the Void si compone di quattro brani più intro rumorista/radiofonico, che mostrano ciascuno una diversa sfaccettatura del sound del gruppo, risultando in questo modo piuttosto eterogeneo e discontinuo, con una prima parte più tipicamente thrash ed una seconda più legata alle influenze sludge e grunge. Il minutaggio ridotto dei brani, per quanto tutto sommato funzionale alla proposta, finisce così per mostrare una band che appare ancora incerta sulla strada da percorrere, con le diverse ispirazioni ancora fin troppo separate ed assai poco amalgamate, con l’unico trait-d’union costituito dalla voce di Babol. Problema che diventa eclatante poi, quando si scende nel dettaglio dell’interpretazione della band, palesemente ispirata dai modelli delle band succitate, specialmente nel cantato di Babol, che richiama in maniera aperta il Phil Anselmomeno esagitato e più interpretativo, finendo per tarpare le ali a brani che di per sé risultano anche molto godibili. Che poi Babol sia anche bravo e riesca ad interpretare più che degnamente le linee melodiche impostate, è un ulteriore motivo di disappunto, visto che di per sé non avrebbe nessun motivo di indulgere così tanto nel tentativo di essere Phil Anselmo. Stessa cosa si potrebbe dire ai compagni di band nei rispettivi ruoli.
Sorpassato l’intro, la doppietta iniziale è quella che si rifà in maniera più forte al groove thrash diCowboys from Hell, ricordando anche -vagamente- gli Anthrax di Sound of White Noise ed iSacred Reich di Indipendent. Discorso evidente in My Satan, canzone di per sé riuscitissima e piacevole, che però si dibatte clamorosamente in piena orgia derivativa panteriana, il che ne riduce grandemente l’impatto finale. Molto buona anche Brainwash, che mostra una band tecnicamente preparata e dinamica, spaccona ma anche consapevole di come si costruisce un movimento di riff capace di dare vera dinamicità, senza per questo affondare insensatamente il pedale nell’acceleratore; forse la chiusura è un po’ affrettata ma si tratta di particolari. Eccoci così arrivare a The Grandfather Is Dead, semiballad paludosa che si attesta nel giusto mezzo tra influenze grunge e southern/sludge. Buona prova anche se si tratta probabilmente del brano meno riuscito dell’EP. La canzone non fa gridare al miracolo e probabilmente farà cadere le braccia ai thrashers arrivati fin qua, ma mostra chiaramente che la band sa costruire anche questo tipo di brano in maniera credibile e potrebbe puntare lontano se riuscisse a togliersi di dosso le pesantissime influenze, che fino a qua hanno spadroneggiato tanto sul songwriting quanto sull’interpretazione. Chiude la trascinante Sister’s Screaming, marchiata Down a fuoco, dotata di un orecchiabilissimo riff e di un una seconda parte che è la cosa migliore ascoltata suAlone in the Void.
Si tratta insomma di un debutto che lascia l’amaro in bocca. Da un lato è infatti impossibile non riconoscere le più che buone capacità strumentali e tecniche della band, che mostra anche un discreto livello di songwriting e un potenziale di crescita sicuramente molto molto elevato, data la capacità di strutturare intelligentemente canzoni brevi ma significative gestendo melodia ed irruenza. Dall’altro lato, è davvero troppo profonda l’impronta che deriva dalle fonti primarie d’influenza per la band. Un vero piombo al piede che impedisce all’EP di spiccare quel volo che sembra alla portata dei Deadly Kiss, visto anche il buon lavoro in studio che dona il giusto risalto agli strumenti impastandoli a dovere tra di loro pur mantenendo una gran nitidezza individuale. Spiace non valorizzare una band per quello che merita, ma le scelte stilistiche vanno tenute in considerazione ed in questo caso affrancarsi il più presto possibile dai propri “padrini”, appare l’unica scelta possibile per diventare una vera band sfruttando l’ottimo potenziale a disposizione.
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